mercoledì 5 novembre 2008

Due giorni di ordinaria follia/1


Dovevo solo presentarmi all’Ergife Palace hotel, venerdì 31, alle nove del mattino. Sembrava quasi semplice. Ma, come disse qualcuno, l’imponderabile è sempre in agguato.

Cronaca di due giorni vissuti in un’altra dimensione.

GIOVEDI’ 30

Arrivo all’aeroporto di Roma Ciampino, ore 8.50 del mattino. In perfetto orario, pure in anticipo di 5 minuti. Davanti a me, una giornata di attesa. I miei target: mantenere energie e tranquillità. Leggere bene e con calma i giornali. Portare il pc alla sede dell’Ordine (che non è la sede dell’esame), per l’ultimo controllo di alimentatore e compatibilità del sistema operativo che sarà fornito il giorno della prova con il computer che userò.

Nell’attesa, raggiungo il mio amico Charles. Anche lui esaminando. Sta a casa di suo cuggggino, zona viale Libia. Uguale: zona nord-est di Roma. Io sto a Ciampino. Uguale: zona sud-est di Roma.
E così: vai di navetta, fino al capolinea della metro rossa. Poi, Anagnina-Termini, solo andata. Riemergo per prendere un bus. E mi trovo nella corrente informe del corteo dello sciopero generale. “Dalle Alpi agli Appennini tutti contro la Gelmini”, leggo su uno striscione. Mentre il bus, dopo pochi metri, si impianta di fronte a un semaforo che continua nel suo ciclo di verde-giallo-rosso. Ma noi rimaniamo lì. Fermi. Dovremmo girare a sinistra, ma c’è il corteo di mezzo. Due vigili urbani osservano paciosi la scena, senza interrompere il flusso di baldi giovani fischiettanti e urlanti. Basterebbe un minuto. Il tempo di fare una curva, e il bus si toglierebbe dalle scatole. Invece rimane lì, isola nella corrente. Sfila un’immagine di Santa Mariastella, con tanto di aureola in testa. “Beata ignoranza”, recita la didascalia. Fa caldo. Dalle sfese dei finestrini gli studenti di biotecnologie infilano nel bus volantini che schematizzano i tagli alla ricerca. La Gelmini ha colpito solo le scuole, con la legge appena approvata. Ma non ha mica tempo da perdere. Il capitolo università è già pronto per essere affrontato: tre quarti del lavoro, in fondo, li ha già fatti il collega Giulio con la finanziaria approvata in estate, nel silenzio vacanziero di tutti gli italiani. “L’Italia è un Paese bagnato da tre mari e prosciugato da Tremonti”, d’altra parte.
Finalmente il bus riprende la corsa. Raggiungo la maison di Charles. Si legge, si chiacchiera, si fa il punto. Si consulta il sito dell’Atac per raggiungere il Lungotevere de’ Cenci, sede del nostro beneamato Ordine. Con tutta l’ingenuità del mondo, usciamo. Altro bus, direzione Barberini. Dovremmo cambiare e prendere un altro mezzo. Sono le 14 e trenta. E tutto è ovviamente bloccato dai primi manifestanti che stanno rifluendo verso casa. Il mezzanino è aperto, ma inagibile. Troppa calca. Le due stazioni successive, Spagna e Repubblica, sono ancora chiuse dalle 10 del mattino. Tornare indietro, impensabile. Bisognerebbe rifare via Veneto al contrario. E cioè in salita, con un computer portatile a testa. E il mio trolley al piombo al seguito. One way, pedibus calcantis: si va verso l’Ordine a piedi. Con rotelle al seguito. Contromano rispetto al corteo che sta sgombrando piazza del Popolo. La valigia salta sui sampietrini. La cinghia del portatile mi sega muscoli e nervi della spalla. Dobbiamo ancora pranzare. Ma non è consentito ripensarci. Avanti Savoia, fino alla morte.
Piazza di Spagna è inondata di gente. Il resto è fatica: suole delle scarpe consumate. Sole in faccia. Caldo. Sudore. Puzza. Finché il Lungotevere si materializza di fronte a noi. Civico numero 8. “L’Ordine sarà aperto dalle 15 alle 18 per le verifiche di compatibilità”. Amen. La targa all’entrata dice: “Ordine dei giornalisti, primo piano”. Davanti a noi, due ascensori. Prendiamo il primo. Ci scaraventa al terzo. “Ma come?”, chiediamo sfiniti alla signora che si para davanti ai nostri occhi. “No, è che questo ascensore non ferma al primo piano. Dovete fare il giro”. “Grazie”. Percorriamo un corridoio lungo, scialbo. Illuminato al neon. Le rotelle del trolley riecheggiano il rumore del triciclo del bimbo di Shining mentre perlustra da solo l’Overlook hotel. Le targhe delle porte dicono: Comune di Roma, ufficio patrimonio e immobili. L’ascensore ci risputa al pianterreno. Ritorniamo all’entrata giusta. Facciamo le scale a piedi. “No, guardate, si sbagliano tutti: è che il piano dell’Ordine non è servito dall’ascensore”. Mannaggia la pupazza (tanto per non essere volgari). La saletta adibita a controllo sta sviluppando un pericoloso effetto stalla. Il soffitto è basso. Gli alimentatori dei pc riscaldano ancora di più l’aria. Fortuna che c’è poca coda. Charles ha il portatile difettato. Gli assicurano che gliene forniranno un altro. Domani.
Riassumendo:
tempo totale di controllo: cinque minuti. Tempo per raggiungere l’Ordine: due ore. Sono le 16,30.

È ora di raggiungere l’hotel. Onesti come siamo, cerchiamo un biglietto per prendere il bus. L’edicola all’angolo non ne ha. Il tabacchino dietro l’angolo li ha appena finiti. Non ci sono altri rivenditori. Stiamo per tornare alla fermata: ognuno per la sua strada e ci vediamo domani. E invece no. Perché “goccia dopo goccia, a piover cominciò”. Ci mancava, in effetti, una spruzzatina d’acqua a rinfrescare la giornata e a insinuarsi nelle nostre ossa. Venti minuti. Giusto il tempo di infrascicarsi ben bene. L’ombrello non conta, tanto piove di traverso, con il vento che c’è.

Quando salgo sul bus, il sole sta già tramontando. Ho salutato Charles al volo. “Ci vediamo domani, caro. E riguardati, mi raccomando”.
Bus, metro, bus. Un’altra ora di viaggio. E arrivo al mio hotel, vicino all’Ergife. Chiamo la mia collega, appena arrivata nello stesso albergo. “Sì, vediamoci dopo per ripassare, che ora mi sto un attimo riprendendo dal vomitino che mi è venuto in treno”, mi fa. Benon.

Inizio a sospettare che ci sia qualche maledizione strana nell’aria. E penso: meglio che succedano tutte le cose fantozziane e più strane oggi, così domani andrà tutto bene.

È stato l’ultimo pensiero pseudo-razionale, prima di addormentarmi ripetendo come un mantra lo slogan di Obama: “Yes we can”.

E il venerdì mattina, giorno della prova scritta, un sole scintillante inondava di azzurro il cielo di Roma, riflettendosi nelle pozzanghere del giorno prima. L’aria era fresca, ma non fredda. Il vociare finto-rilassato dei candidati in coda all’entrata della sala Esperanza non faceva che presagire una noiosa e seccante sessione d’esame, da terminare nel più breve tempo possibile.

E invece …

Nessun commento: